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4. Paesaggio e natura in epoca antica

La Valle Steria

.....4. Paesaggio e natura in epoca antica

.....Anticamente la Valle del Cervo era coperta da un folto bosco, che si estendeva ben oltre i suoi confini orografici. Le testimonianze di questa condizione sono sporadiche e non espressamente dette, ma sono anche inequivocabili e coprono l'ampio arco di tempo che va dalla preromanità all'alto Medioevo.
.....Le rare fonti classiche che in qualche modo citano la nostra valle infatti riferiscono di un "lucus Bòrmani" (citato anche come Luco Boramni e Luco Vermanis), ovvero di un bosco sacro dedicato dagli antichi abitatori indigeni alla loro divinità Borman, che secondo le più recenti indagini storiche ed archeologiche aveva il suo fulcro nei pressi del sito dove oggi sorge il Santuario di N. S. della Rovere. Una conferma dell'esistenza della selva, e al tempo stesso della sua estensione alla parte superiore della Valle, ci verrebbe dal toponimo Faraldi, che, come si è detto, sarebbe derivato dal termine longobardo che è stato tradotto in "abitato nel bosco".

Bosco di roverella nell'alta Valle Steria.

.....La situazione peraltro doveva presentarsi già allora un tantino diversificata, seppure con la predominanza assoluta dell'ambiente boschivo composto da roveri e da altre essenze autoctone; è ragionevole pensare che nella Valle fossero presenti delle colture agrarie, se non altro per soddisfare le esigenze di sostentamento primarie della popolazione locale. Il rinvenimento di reperti archeologici databili a partire dalla protostoria, infatti testimonia dell'esistenza di centri di vita sparsi nel suo territorio: a Cervo, alla Rovere, a Pairola, a Chiappa, a Riva, a Villa e a Tovo Faraldi, così come nella parte pianeggiante dell'attigua valle dell'Evigno.
.....Quelli fin qui richiamati sono indizi significativi, ma labili e assolutamente insufficienti per una ricostruzione anche approssimativa del paesaggio agrario di questa terra in epoca antica, giacché non si ha nessuna indicazione delle pratiche colturali messe in atto; in particolare non si hanno notizie sulla presenza o meno della coltivazione dell'ulivo, destinata a conseguire tanta importanza in epoca moderna.
.....Se può apparire corretta l'ipotesi che il pregiato olio d'oliva fosse sconosciuto presso i rozzi Liguri Ingauni, è certo invece che i Romani ne fecero un larghissimo consumo, per i molteplici impieghi nei quali poteva tornare utile. Per far fronte alle loro necessità essi favorirono l'introduzione dell'olivicoltura ovunque le condizioni ambientali lo permisero. Lo storico Ambrogio nel IV Secolo d. C. ricorda che i Romani ne diffusero la pratica nell'Italia Superiore; considerate le peculiarità climatiche della nostra regione è plausibile ritenere che i primi oliveti vi abbiano fatto la loro comparsa a quel tempo.
.....I secoli che seguirono, profondamente segnati dalle devastazioni delle orde barbariche, da conflitti inesauribili e dalle scorrerie dei Saraceni, portarono allo spopolamento dell'area ligure di Ponente e all'abbandono all'incuria di ogni coltivazione. Gli uliveti, se ve n'erano, non ebbero sorte migliore. Si salvò forse soltanto qualche modesta piantagione ubicata nelle zone più protette, dove fu possibile preservarli dalle rovinose ripercussioni di quelle brutalità.

.....Il Medioevo è stato per la nostra terra un periodo di grande trasformazione, che ha avuto inizio nel cuore dell'età feudale. Principali artefici di ciò sono stati i monaci benedettini dell'Abbazia di Santa Maria e San Martino della Gallinaria, che poterono vantare sugli abitanti della Valle del Cervo dei diritti non ben precisati, ma sicuramente non esclusivamente di natura spirituale.
.....I meriti acquisiti nella nostra regione da quell'ordine monastico sono ben noti e in alcuni casi forse anche troppo magnificati. Di certo è fuori luogo attribuire la trasformazione del paesaggio agrario ligure soltanto alla loro operosità, giacché un'impresa di tale portata non avrebbe potuto aver compimento se non per l'impegno e le fatiche secolari di un'intera popolazione. Ai monaci però va riconosciuto il merito d'aver saputo persuadere i liguri ad abbandonare i rifugi montani e ridiscendere a valle a coltivare le terre devastate e inselvatichite, fornendo loro delle valide motivazioni e l'assistenza opportuna per dare adito ad aspettative di progresso, trasmettendogli inoltre i loro fondamenti: una salda fede, una inossidabile tenacia e la determinatezza nell'affrontare le avversità e i duri sacrifici quotidiani, che sono diventate così la regola di vita delle genti ponentine.
.....I monaci benedettini hanno insegnato ai novelli contadini a ricavare terreno fertile dalle colline scoscese, costruendo dei muri in pietra a secco e riempiendovi dietro con la terra portata da valle per ricavare delle fasce piane da coltivare; quindi hanno mostrato loro le tecniche colturali e quelle dell'estrazione dell'olio, apprese dai testi classici copiati e conservati gelosamente nei conventi più reconditi per strapparli all'oblio della distruzione dei barbari invasori.
.....La tradizione nel Ponente lega il nome dell'ordine benedettino alla diffusione della varietà "taggiasca", pressoché esclusiva nel tratto compreso tra Nizza e Capo Mele, che deriva la sua denominazione dalla località che fu il centro di diffusione delle prime pianticelle da trapiantare. Per quanto concerne la Valle del Cervo, è indubbio che i monaci benedettini costituirono intorno al volgere del millennio l'elemento trainante di una profonda evoluzione della quale non si hanno testimonianze dirette, ma che si può agevolmente intuire e i cui risultati cominciarono a manifestarsi evidenti un paio di secoli più tardi.
.....Anche il Basso Medioevo, che pure ci ha lasciato una considerevole documentazione di interesse storiografico, ben poco ci dice sulle condizioni agrarie di questa terra. Sappiamo che nel Duecento le colture praticate erano essenzialmente quelle finalizzate al soddisfacimento delle occorrenze alimentari locali e alla produzione di ciò che poteva essere venduto a Genova, unico mercato praticabile in quei tempi; l'esportazione verso la capitale, per quanto limitata, rappresentava per l'esigua economia cervese una risorsa vitale, che andava ad integrare il profitto risultante dall'esercizio delle più svariate attività marinare.
.....Le produzioni agrarie più comuni di allora erano il grano e le granaglie in genere, però in quantità insufficiente per soddisfare il fabbisogno locale e vi si doveva sopperire con frequenti importazioni; poi vi erano vari tipi di frutta con i fichi in evidenza, questi in quantità tale da poterli esportare, quindi le susine, le pere, le mele, i melograni, le sorbe, le ciliegie, le more, le giuggiole, i cedri e i citroni; le verdure erano costituite da abbondanti ortaggi di varie specie, destinati soprattutto al consumo in loco, come la frutta, e ancora le biade in genere, il fieno e la paglia.
.....Era diffusamente praticata anche la viticoltura e il vino prodotto veniva venduto facilmente sulla piazza genovese. L'olivicoltura allora rappresentava soltanto un'attività marginale e le piante d'ulivo erano poche e relegate ai margini dei poderi. Ciò nondimeno l'industria olearia aveva mosso i primi passi ed erano comparsi i primi frantoi, tutti mossi dalla forza animale, perché l'energia idraulica era appannaggio esclusivo dei molini per cereali.
.....Il processo di trasformazione dell'assetto agrario locale, che vedeva l'ulivo avviarsi alla conquista di spazi sempre più ampi e intraprendere con la vite una lunga competizione per il primato, comunque aveva avuto inizio.
.....Di tale evoluzione si trova finalmente qualche testimonianza nella prima metà del Quattrocento, nelle più antiche descrizioni conosciute del territorio ligure. Secondo l'uso del tempo esse sono stringatissime e riportano soltanto le caratteristiche principali delle località trattate, oppure le particolarità che hanno suggestionato maggiormente l'estensore, o ancora dei luoghi comuni fortemente radicati. Così ad esempio nel 1548 nel trattare della Valle del Cervo Giacomo Bracelli si è limitato a citarne l'ubicazione felice del Capoluogo e a ricordare che gran parte dei suoi uomini era dedita alla pesca del corallo nei mari della Sardegna e dell'Africa, creando uno stereotipo ripreso con frequenza dagli autori successivi. Nel descrivere il Dianese invece ne ha rilevato i caratteri agro-economici salienti e lo ha detto fecondo d'ulivi e di viti.

........................................G. F.

Uliveto

Mandorlo in fiore.

Frutti del Sorbo.

Ciliegio in fiore nell'alta Valle Steria.

Modellino di barca corallina con ''l'ingegno'', l'attrezzo utilizzato per la pesca del corallo.

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